mercoledì 28 aprile 2010

27 e 28 aprile

Sulla trasformazione della medicina e dei medici (e sull'uso del termine eutanasia). Qui qualche altra informazione al riguardo.

La banalità del male di Hannah Arendt (1963, Eichmann in Jerusalem - A Report on the Banality of Evil, molte pagine sono leggibili qui).


Qualche spunto sul pezzo che abbiamo letto e commentato (utile anche per la stesura della tesina).

Veronesi: la scelta dell'eutanasia è la forma più alta di libertà.
L' affermazione dell' ex ministro della Sanità nella prefazione di due libri sulla «dolce morte».

Il Corriere della Sera, 16 febbraio 2010.
MILANO - «La scelta dell'eutanasia può essere vista come la forma più alta di libertà». Parole di Umberto Veronesi, oncologo di fama ed ex ministro della Sanità. Parole ben ponderate, visto che sono state ripetute per ben due volte nelle prefazioni di due libri sull'eutanasia, in questi giorni sugli scaffali. Il primo libro, «La dolce morte» (Sonzogno, in libreria a marzo), è di Marie de Hennezel, la psicologa francese diventata famosa per avere ospitato nel suo precedente volume, «La morte amica», il testamento spirituale dell'ex presidente francese François Mitterrand. Il secondo libro con prefazione di Veronesi - «Il posto delle fragole» (Armenia) - è della sociologa e psicologa Serena Foglia e raccoglie commenti di altri personaggi noti, da Francesco Alberoni ad Antonio Tabucchi. L'ex ministro appare ben consapevole della forza della sua presa di posizione, mai così esplicita, tanto che nella prefazione si affretta ad aggiungere: «Mi rendo conto, sono parole forti, sono sentimenti difficili da accettare, è una dura presa di coscienza di un traguardo che tutti dobbiamo attraversare. Scegliere per chi amiamo la "dolce morte" può essere un gesto di coraggioso amore, una dimostrazione che il nostro amore per la sua vita, ora sofferente, va oltre il nostro bisogno della sua presenza». Parole che vanno persino oltre le tesi esposte da Marie de Hennezel nel suo volume: «Il mio libro - spiega - non è né contro né a favore dell'eutanasia. Semmai è a favore delle cure palliative: è dimostrato che il 90 % delle richieste di morire non ci sarebbero se i malati si sentissero meno soli. Questo libro vuole rompere un tabù e aiutare ad aprire un dibattito». Un approccio condiviso con il ministro: «L'ho incontrato a Palermo lo scorso anno a una conferenza - dice la Hennezel - e mi è sembrata una persona sensibile a questi temi. In Italia, invece, so che le cure palliative sono poco sviluppate rispetto alla Francia, nonostante l'impegno della fondazione Florian di Milano». Veronesi, come la Hennezel, si guarda bene dall'offrire facili soluzioni a un problema così complesso. E nella prefazione al libro della Foglia scrive: «Non esistono regole, non esistono leggi, non esiste una via giusta e unica: ogni caso va analizzato nella sua singolarità».
Le prime due parole che devono essere chiarite e definite sono eutanasia (vedi anche sopra) e libertà. Usarle senza chiarirne il significato implica inevitabilmente ambiguità e confusione.
Il termine eutanasia vine spesso usato, soprattutto da chi la condanna, con tutto il peso dei ricordi di quanto avvenuto, per esempio, negli anni del nazismo o, peggio, per trascinare la condanna giusta verso veri e propri omicidi (chiamati eutanasia) sulla discutibile condanna verso la possibilità di decidere riguardo alla propria vita e alla propria morte (chiamata anche questa eutanasia). Un pezzo molto interessante di Anna Meldolesi al riguardo: Su Eluana e sull'eutanasia.

Che cosa intendiamo con libertà? I significati cono innumerevoli. Dovremmo chiarire che cosa qui verosimilmente si intende (ed eventualmente in quale significato la usiamo noi nella nostra analisi).

Il punto più controverso è la prima frase in rosso. Perché? Che cosa risulta inaccettabile?

I dati che vengono riportati meriterebbero un controllo, così come l'implicazione
"più cure palliative" ---> "meno richieste di morire".

Infine l'ultima affermazione: c'è qualcosa che non va nel sostenere che non esistono leggi e che ogni caso va considerato di per sé?


Possibili approfondimenti: qual è la situazione normativa italiana? Quali sono i riferimenti giuridici esistenti?
(Sulle questioni di fine vita un testo utile è quello di James Rachels, Quando la vita finisce. La sostenibilità morale dell'eutanasia: uno dei nodi della riflessione di Rachels riguarda la presunta differenza morale tra eutanasia attiva e passiva).

Uccidere e lasciar morire

È opinione diffusa che esista una differenza tra uccidere e lasciar morire (differenza su cui si fonderebbe la distinzione tra eutanasia passiva ed eutanasia attiva). Dal punto di vista morale non esiste una differenza.
C’è identità morale tra un’azione e un’omissione che abbiano il medesimo esito: la fine della vita.
La cosiddetta tesi dell’equivalenza dice che non esiste una differenza rilevante dal punto di vista morale tra uccidere e lasciar morire. Ciò non significa che non ci possano essere ragioni per ritenere un atto di uccisione peggiore di un atto di lasciar morire, piuttosto che “il semplice fatto che uno è uccidere, mentre l’altro è lasciar morire, non fa parte di queste ragioni”, per usare le parole di James Rachels.

L’esempio di James Rachels è il seguente.

Caso 1: Rossi erediterebbe molti soldi se suo cugino di 6 anni morisse. Una sera il bambino fa il bagno; Rossi entra, lo affoga, sistema le cose per simulare un incidente. Nessuno lo scopre, e lui eredita.

Caso 2: Verdi erediterebbe molti soldi se suo cugino di 6 anni morisse. Una sera il bambino fa il bagno; Verdi entra con l’intento di affogarlo, ma il bambino scivola e batte la testa. Nel giro di qualche minuto affoga senza che Verdi sia intervenuto. Verdi eredita.

Rossi ha ucciso il cuginetto, invece Verdi lo ha soltanto lasciato morire. Saremmo forse disposti a dire che il comportamento di Verdi sia moralmente preferibile al comportamento di Bianchi? In base alla tesi “tradizionale” dovremmo: se lasciar morire è diverso e moralmente preferibile all’uccidere, allora dovremmo dire che Verdi si è comportato meglio di Rossi.
L’intento di Rossi e Verdi è il medesimo: ottenere l’eredità tramite l’eliminazione dell’ostacolo (il cugino di 6 anni).
Il risultato è il medesimo: la morte del bambino e l’eredità al farabutto.
La conseguenza era ugualmente necessaria tanto nell’azione che nell’omissione: la morte.
Tutte le attenuanti sarebbero valide tanto nel caso di Rossi che in quello di Verdi. Il fatto che il primo abbia ottenuto l’eredità tenendo il bambino sott’acqua, e il secondo si sia limitato a guardarlo affogare, non costituisce di per sé una differenza moralmente rilevante.
Alcuni degli argomenti proposti per contrastare questa equivalenza sono noti, si potrebbe dire abusati. Ne propongo alcuni.
La condanna assoluta dell’uccidere e la profonda differenza rispetto al lasciare morire, secondo alcuni, sarebbe dimostrata dall’evidente inaccettabilità morale dell’essere la causa della morte di qualcuno. Ma quanto andrebbe dimostrato, ancora una volta, è che esiste una differenza moralmente rilevante tra staccare il respiratore e praticare una iniezione. Differenza invece flebile, e moralmente inconsistente per le ragioni che sono state esposte.
Per alcuni sarebbe sufficiente invocare il compito proprio della medicina per scansare il dubbio che anche provocare la morte rientri nel dominio squisitamente medico. In altre parole si richiama il dovere di non far male al prossimo (in generale, non solo del medico) e lo si definisce molto più forte del dovere di aiutare il prossimo. Senza dubbio il dovere morale e professionale del medico è quello di stare vicino al paziente, di aiutarlo. Ma la questione diventa allora: uccidere (aiutare a morire) un paziente in agonia significa necessariamente e unicamente fargli del male? Oppure in alcune circostanze può essere un atto doveroso, e
addirittura preferibile rispetto al tenerlo in vita a tutti i costi e, soprattutto, contro la volontà del paziente stesso? D’altra parte lo spirito della condanna verso il cosiddetto accanimento terapeutico è proprio la consapevolezza che in alcune circostanze la resa è la scelta giusta, e che anche la morte rientra nei compiti del medico.
Qualcuno invoca il coinvolgimento del medico come ostacolo insuperabile al provocare attivamente la morte di un paziente. Se è comprensibile che ci possano essere resistenze e difficoltà nel causare direttamente la morte di una persona (per quanto gravemente malata e per quanto abbia espresso il desiderio di morire), non bisogna mai dimenticare che le reazioni personali o psicologiche devono essere distinte dagli ostacoli morali, e soprattutto le credenze morali devono essere sottoposte al vaglio, perché non è detto che credere che un atto sia sbagliato (eutanasia attiva) implichi che quell’atto sia davvero sbagliato.
La concezione della medicina è mutata anche in seguito all’impetuoso sviluppo della biomedicina, che ha permesso atti un tempo impensabili. Quando curare diventa impossibile la medicina deve affrontare la morte, la medicina ha a che fare con la vita e la guarigione, ma deve necessariamente fare i conti con la morte e, per il bene del paziente, questa dovrebbe essere meno dolorosa possibile, a meno che non vi sia una richiesta diversa da parte del paziente.

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